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Ecco alcuni spunti dalla View Conference 2014 tenutasi a Torino, in merito allo Story telling.

Sì perchè le storie non sono solo quelle scritte ma possono essere anche animate ed interattive.
Pensiamo ai cartoni, cinema, videogiochi, pubblicità. Ricordiamo che la Pixar fu il primo studio a realizzare un lungometraggio interamente al computer.

Ma come sono queste storie? Come nascono, che caratteristiche devono avere ed infine, la tecnologia la fa da padrona, o le emozioni, la suspence, la novità, l’intreccio?
Di certo nello storytelling di animazione c’è il valore aggiunto delle immagini.

Se una foto dice più di mille parole, chissà quando la storia stessa è immagine!

Secondo i grandi dei film di animazione come

  • Tom Mcgrath,regista, sceneggiatore, produttore e attore della DreamWorks Animation (I Pinguini di Madagascar),
  • l’altrettanto premiato animatore Glean Keane,
  • Rob Coleman, supervisore dell’animazione di grandi successi e del nuovo’Lego Movie’,
  • il co-fondatore della Pixar Alvy Ray Smith,
  • Lucia Modesto direttore tecnico alla supervisione dei personaggi di PDI / DreamWorks,

contrariamente a quanto si possa pensare, in una storia coinvolge ciò che ti tocca a livello emotivo e quindi non c’è bisogno di una storia complessa.

Stephen King diceva che lui imparava dai suoi personaggi, li metteva in una stanza e vedeva cosa succedeva.

Le storie che funzionano spesso sono semplici, ma hanno un intreccio, una mescolanza. Per esempio, in Nemo il padre del pesciolino era ultra protettivo perchè aveva perso la moglie e voleva proteggere il figlio, mentre Nemo voleva sfidare il mare per dimostrare che poteva farcela anche da solo. Cioè un comportamento è causato da un evento-comportamento precedente.

La regista di teatro Brenda Bakker Harger, improvvisatrice e docente dice che alla fine della storia qualcosa deve essere stato trasformato, ovvero il vero significato della storia arriva dal cambiamento.

Per scrivere una storia, può essere molto utile l’improvvisazione: si può iniziare da una persona, da un luogo, da un evento, oppure da un momento per poi tornare indietro.

Altri interlocutori della tavola rotonda sottolineano invece che una storia funziona quando non si sa come va a finire: bisogna essere sorpresi dalla storia.

Magari una storia funziona ma poi quella situazione-schema è stato ripreso così tante volte in diversi film che smette di funzionare. Insomma, serve l’innovazione anche nello storytelling, non solo l’emozione.

Patrick Osborne (che ha presentato “Feast”, nuovo cortometraggio firmato Disney Animation) dice che a volte si diventa ciechi quando si fa dello storytelling: bisogna condividere la storia, sentire le reazioni di amici e lavoratori, finanche, qualcuno aggiunge, dei tecnici delle luci.

La storia deve essere capita e condivisa e magari l’idea iniziale può fiorire e trasformarsi.
Anche Glean Keane (Duet) ricorda che le parole che usiamo per raccontare “galleggiano sull’acqua ma sono ancorate a qualcosa di profondo”. A volte bisogna lasciare andare l’idea iniziale perché si evolva.

Ma nel digital storytelling si è schiavi della tecnologia o no?

Nell’83 dice Rob Coleman non riuscivo a fare muovere i personaggi come volevo io, oggi questo problema è superato e mi concentro sulle performance del mio personaggio.
Ora i tool di real time active animation prendono 1 personaggio e lo muovono come si vuole.
“L’artista può fare l’artista e non preoccuparsi del computer”.

Forse oggi i computer hanno raggiunto la matita!”

Di contro, c’è una tendenza esagerata a mostrare qualsiasi dettaglio nello sfondo, per poi perdere di vista la storia.

Avere una struttura può rivelarsi utile “C’era un volta … un giorno accadde,… finchè un giorno …a causa di questo … alla fine …”.

Alcuni tra il pubblico domandano se la virtual reality col role play game possa essere di ispirazione: tu interagisci ma non sai quale sarà il risultato della tua azione.

Ma, secondo alcuni, il problema è che in quel caso servirebbero molte storie e si può mantenere il character art in questo caso?
Nella filmografia dei cartoni l’interattività c’è sentendoci sempre nelle mani di un buon narratore.

Infine, a volte la differenza la fa la serendipity, quell’happy accident, quella live action che non era prevista ma che cambia le cose e funziona.

Serve che la storia abbia un messaggio?

Il messaggio da trasmettere può ben esserci ma deve essere percepito attraverso le emozioni.

Per le emozioni più profonde in realtà non c’è manco bisogno di parole.

Lo ha dimostrato al pubblico il cortometraggio “Duet”, Glen Keane’s Hand-drawn animation. In pochi minuti, ci si emoziona nel vedere 2 bambini crescere, nel contatto con la natura, nel vedere sbocciare l’amore.

L’importante è fare un buon pitch della storia che vuoi realizzare, solo così si potrà mantenere il controllo su di essa.
La differenza lo fa il credere nel tuo personaggio.

I film sono le nostre cattedrali di oggi, quelle cattedrali che erano i capolavori dell’uomo tra gli anni 1000 e 1400. Quelle opere maestose che ti lasciano senza parole e che sono Arte.
Oggi hanno dimostrato che si può fare Arte con i Lego.

scritto da Monica Cordola

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